La fotografia è una forma d’arte relativamente recente, nata ufficialmente nel 1839 dopo la concessione del brevetto della tecnica del processo fotografico dell’epoca a Louis Jacque Mandè Gaguerre. Ma la sperimentazione della tecnica fotografica ha origini più antiche di quel che sembra. Fotografia infatti, significa “scrivere con la luce” (dal greco) e gli esperimenti di “scrittura con la luce” cominciano da Aristotele che nel suo trattato Problemata Physica cita i raggi del sole che passano per un’apertura quadrata formano un’immagine circolare la cui grandezza aumenta con l’aumentare della distanza dal foro dopo aver osservato un’eclissi di sole all’interno di un piccolo ambiente oscurato. Comincia a definirsi l’idea di una proto macchina oscura grazie al matematico arabo Alhazen (965-1038) spiegando il fenomeno fisico del rovesciamento dell’immagine nel suo trattato di ottica. Infatti, è considerato l’iniziatore dell’ottica moderna superando l’antica concezione dell’elaborazione soggettiva della mente umana della luce. Ma il termine camera oscura è stato coniato da Giovanni Keplero, illustre fisico contemporaneo di Galileo Galilei, citato nel trattato Ad Vitellioneum paralipomena. In questo trattato egli descrive un ambiente buio di dimensioni differenti con un piccolo foro circolare (chiamato foro stenopeico). I raggi luminosi, passando attraverso il foro, provenienti da oggetti esterni illuminati si incrociano e proiettano sulla parete opposta l’immagine rovesciata e invertita dagli oggetti stessi. L’immagine appare tanto più nitida quanto più piccolo è il foro rendendola però d’altra parte meno luminosa. Il metodo della “camera oscura” viene utilizzato anche dai suoi contemporanei per i loro studi scientifici: Ruggero Bacone ne scrive nel suo trattato De multiplicatione Specierum e Guglielmo di Saint-Claud che registrò nel suo Almanach planetarum la posizione del sole su uno schermo mediante una camera oscura.

Dal Rinascimento al XVIII secolo.
Anche Leonardo da Vinci, genio inventore del Rinascimento, tra le sue molteplici e rivoluzionarie sperimentazioni vi rientra la camera obscura (la camera oscura leonardiana). Descritta nel Codice Atlantico nel 1515 un procedimento per disegnare edifici e paesaggi dal vero che consisteva in un foro applicato sulla parete, sopra cui veniva inserita una lente regolabile che proiettava sulla parete opposta al foro un’immagine del tutto federe alla realtà, fatta vedere dalla lue proveniente dal foro. Leonardo utilizza questo sistema per riprodurre il paesaggio esterno con precisione, copiandolo sulla carta appesa a cui andava applicato il disegno. La camera oscura per Leonardo era associabile alle funzioni dell’occhio umano e i processi di correzione del nostro cervello. Dico che, se una faccia d’uno edifizio o altra piazza o campagna, che sia illuminata dal sole, arà al suo opposto un’abitazione, e in quella faccia che non vede il sole sia fatto uno spiraculo rotondo, che tutte le alluminate cose manderanno la loro similitudine per detto spiraculo e appariranno dentro all’abitazione nella contraria faccia, la quale vol essere bianca, e saranno lì appunto e sottosopra, e se per molti lochi di detta faccia facessi simili busi, simile effetto sarebbe per ciascuno.” (Leonardo Da Vinci, Codice Atlantico). Al fisico-matematico Reiner Gemma Frisius si attribuisce la prima visualizzazione di una camera oscura con un disegno, riferito all’eclissi solare verificatasi a Lovanio nel 1544. Il fenomeno alla base del funzionamento di una camera oscura si verifica producendo un foro sulla parete i una stanza resa completamente buia, in modo che sulla parete opposta al foro si rifletta un’immagine ribaltata (alto-basso e destra-sinistra) della porzione di realtà illuminata che è al di fuori della stanza stessa. Grazie a questo espediente alcuni fenomeni particolari come l’eclissi, potevano essere studiati e seguiti senza rischi per la vista che l’eccessiva luminosità del sole poteva causare. Sempre a a metà del Cinquecento, Gerolamo Cardano propone l’inserimento di una lente convessa in corrispondenza del foro per aumentare la luminosità, e dunque la precisione, dell’immagine riflessa; contemporaneamente Daniele Barbaro, nel suo “Della Prospettiva” aggiunge a tale scopo una lente al diaframma. Nell’illustrazione della camera oscura mobile progettata dal gesuita Athanasius Kircher, nel suo Ars magna lucis et umbrae del 1646, è possibile vedere anche il modello a due camere: una posta dentro l’altra in modo che il disegnatore potesse stare dentro la più piccola, e ricalcare sulle pareti di carta trasparente la proiezione attraverso il foro praticato in quella esterna, più grande. Il filosofo è anche precursore di un’altra forma d’arte, quella cinematografica. Infatti è uno dei costruttori di quella che all’epoca si chiamava la Lanterna Magica, che proietta disegni ingranditi su vetri trasparenti utilizzando lanterne a petrolio o candele. Nel 1657, lo scienziato Kaspar Schott mette a sistema il primo esempio di teleobiettivo, con una camera oscura composta da due cassette scorrevoli, una dentro l’altra, permettenti la variazione della distanza fra la lente e il piano su cui si forma l’immagine, e quindi mettere a fuoco. Nel 1685 lo scienziato Johann Zahn mette a punto un modello di camera oscura reflex (principio tuttora alla base delle macchine fotografiche reflex) che aggiunge sulla parte di fondo, su cui si proietta l’immagine della realtà, uno specchio inclinato a 45° grazie al quale l’immagine viene ribaltata e proiettata in alto (recuperando quindi la corretta visione naturale sinistra-destra) in modo che, sulla parete orizzontale della camera sulla quale si trova il vetro appositamente sistemato, quella porzione di realtà risulti facilmente ricaricabile.

 

Illustration of the magic lantern in Athanasius Kircher's Ars Magna Lucis et Umbrae (1671 second edition). Fonte Wikimedia Commons
Illustration of the magic lantern in Athanasius Kircher's Ars Magna Lucis et Umbrae (1671 second edition). Fonte Wikimedia Commons

L'incontro con la chimica
Ma la sperimentazione non si limita alle leggi di ottica. Il passaggio chiave che segna l’avviamento verso una forma di scrittura su un supporto fisico è la sperimentazione chimica. Infatti, è dagli studi di quest’ultima che si cominciano a definire termini quali la fotosensibilità, ovvero la capacità di un materiale di subire una reazione chimica dopo l’esposizione alla luce. Lo scienziato Johann Heinrich Schultze, scopre infatti che il nitrato d’argento diventata scuro se esposto alla luce perché si decompone e libera argento metallico contente impurità (alogenuri d’argento). Egli poi continua la sperimentazione con una bottiglia di vetro riempita di una miscela di gesso, argento e acido nitrico, la quale si scurì solo dalla parte esposta alla luce. Alla miscela viene dato l’appellativo di scotophorus, ovvero portatrice di tenebre. Da questo momento si crea un gran fermento nella comunità. Verso la fine del ‘700 Antonie Lavoisier, considerato il padre della chimica moderna, comprende che la materia che ci circonda è composta da “mattoncini” chiamati elementi. Così si dà il via alla scoperta degli elementi chimici che poi riempiranno la Tavola Periodica di Mendeleev. Grazie infatti al chimico Humpry Davy (il primo ad isolare elettrochimicamente elementi quali potassio, sodio, calcio, stronzio, bario, magnesio e boro) insieme all’inventore Thomas Wedgwood, si rende possibile studiare la cattura delle immagini utilizzando il nitrato d’argento trasferito su vetro e pelle. Nel 1802 viene presentato infatti un articolo, "Account of a Method of Copying Paintings upon Glass sul Journal of the Royal Institution of Great Britain", alla Royal Society di Londra.

La corsa al primato
L’Inghilterra vede un altro contributo importante sul fissaggio delle immagini, quello dato dall’inventore William Henry Fox Talbot insieme all’astronomo John Frederick William Herschel. Grazie agli esperimenti sulla luce di quest’ultimo, Talbot sperimenta la riproduzione di immagini con dei fogli di carta con soluzione di sale e nitrato d’argento. Il foglio, sul quale fu appoggiata una foglia, venne esposto alla luce e le zone colpite. È stato sufficiente posare una foglia sulla carta ed esporla alla luce per rendere scure le zone non protette dalla luce. In questo modo si ottiene un negativo della foglia. La tecnica prende il nome di shadowgraph, (sciadografia). Il 28 febbraio 1835 Talbot descrive infatti il procedimento per ottenere un’immagine positiva dalla negativa: “nel processo fotogenico o sciagrafico (dal greco skia, "ombra"), se la carta è trasparente, il primo disegno può servire come oggetto, per produrre un secondo disegno, nel quale la luce e le ombre appariranno rovesciate”. Questo procedimento fotografico, che permetteva la riproduzione delle immagini con il metodo negativo/positivo, prende il nome di calotipia. Suo malgrado, anche se prossimo alla data ufficiale della nascita della fotografia, il successo è tardato ad arrivare perché più vicino ad un procedimento più seriale e meno esclusivo.

"Photoglyptic Grauve" Williamo Fox Talbot 1860. Fonte Wikimedia Commons

 

Contemporaneamente agli esperimenti Talbot-Herschel, i ricercatori francesi Joseph Nicéphore Niépce e Louis Mandé Daguerre vincono la corsa al primato di padri indiscussi della fotografia. Ma facciamo un passo indietro. A Joseph Nicéphore Niépce nel 1826 si deve la “prima” vera fotografia con ripresa di paesaggio impressa e fissata, la Veduta dalla finestra a Le Gras su una lastra di stagno ricoperto di bitume di Giudea (miscela contenente bitume, olio cotto, argilla ed essenza di trementina) a seguito di un’esposizione di otto ore. Questo procedimento prende il nome di eliografia e prevedeva il lavaggio del bitume non sensibilizzato e con i vapori di iodio servivano per annerire le zone lavate dal bitume. La lunga esposizione alla luce del sole ha reso però l’immagine abbastanza surreale in quanto il sole, nell’arco di tempo, cambia ovviamente orientamento.

 

Vista dalla finestra a Le Gras, Joseph Nicéphore Niépce. Copyright by flickr.
Vista dalla finestra a Le Gras, Joseph Nicéphore Niépce 1826. Copyright by flickr.

 

L’anno successivo Niépce vede negarsi la pubblicazione da parte della Royal Society a causa della non rivelazione dell’intero procedimento. Conscio della strada ancora da percorrere, Niépce si associa a Louis Daguerre dove continuano a sperimentare sui materiali. Purtroppo nel 1833, Niépce muore senza pubblicare il suo procedimento, lasciando Daguerre solo nella sperimentazione però proponendo un procedimento diverso da quello di Niépce. Daguerre infatti utilizza una lastra di rame con applicata una sottile foglia d’argento lucidato, che reagisce ai vapori di iodio formando lo ioduro d’argento. Segue poi l’esposizione alla camera oscura dove la luce rende lo ioduro d’argento nuovamente argento in modo proporzionale alla luce ricevuta. Successivamente l’immagine è resa visibile grazie all’esposizione ai vapori di mercurio a 60° di temperatura e un bagno di sale da cucina. Nel 1838, infine, dopo aver realizzato nel 1837 il dagherrotipo “L’Atelier dell’artista” (una natura morta ripresa in interno), il francese Louis Mandé Daguerre fotografa il Boulevard du Temple e la prima immagine umana: un gentiluomo (forse un complice di Daguerre, considerando il tempo lungo – oltre 20 minuti - dell’esposizione) fermo dal lustrascarpe.

 

Vista di Boulevard du Temple, Luois Jacques Mandé Daguerre 1838. Copyright by flicr.
Vista di Boulevard du Temple, Luois Jacques Mandé Daguerre 1838. Copyright by flicr.

 

Grazie al sostegno finanziario di François Arago (eletto alla Camera dei Deputati del distretto dei Pirenei orientali ne propose un contributo economico), Il 6 gennaio 1839 la scoperta di una tecnica per dipingere con la luce fu resa nota con toni entusiastici sul quotidiano Gazette de France e il 19 gennaio nel Literary Gazette. “Per concludere, la mirabile scoperta di monsieur Daguerre ha reso un servizio immenso alle arti” (Paul Delaroche). Ed è da qui che parte la storia.

Sonia Spiniello
Art Care Expert

 

Bibliografia

Nikon-La storia della fotografia

Biblioteca Ambrosiana - Archivio

Il Codice Atlantico di Leonardo da Vinci

Zannier, I., 1986. Storia della fotografia italiana. Roma: Laterza.

Newhall, B., 1982. The history of photography. New York: Museum of Modern Art.

Vogel, H., n.d. The chemistry of light and photography in their application to art, science, and industry.